#libriletti Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri, di Daniele Germani Edizioni Spartaco
Tre voci narranti ci conducono in un viaggio alla scoperta di quella che, in maniera molto spesso semplicistica, è definita pazzia: un uomo, ossessionato da una nota stonata che risuona in determinati momenti della sua esistenza; una donna che, moglie e madre, ha dovuto rinunciare alla sua passione di suonare il pianoforte per dedicarsi alla famiglia; un pazzo che, dopo essere stato rinchiuso per vent’anni in un manicomio, medita di costruire una bomba per eliminare il padre.
Tre esistenze che devono fare quotidianamente i conti con quei granelli di polvere che gli appesantiscono la mente, che modificano la realtà percepita, alterandola. Granelli che devono essere puliti, spazzati via, ma che rischiano di portare via con sé anche una parte di vita di quelli che sono definiti pazzi.
Un romanzo ambientato agli inizi degli anni ’80, dopo che la Legge Basaglia decretò la chiusura dei manicomi, che riproduce le sofferenze di coloro che venivano etichettati come anormali, non solo perché malati di mente, ma anche se omosessuali o diversi rispetto agli altri, dunque puniti con la reclusione negli Istituti.
Una narrazione caratterizzata da uno stile molto elegante, morbido, in cui si alternano le vicende dei tre protagonisti che si rivelano al lettore mettendo a nudo i loro limiti, le loro difficoltà di cucire il rapporto tra la realtà esterna e quella percepita.
Un romanzo che scorre fluido pagina dopo pagina, ma che a tratti obbliga il lettore a fermarsi per riflettere sulla diversità attraverso una sorta di tour dell’altra realtà in cui, non potendosi calare completamente in prima persona, è quasi costretto a lasciarsi guidare dai protagonisti, ovvero da quei pazzi che, però, si chiedono: “Come fate a essere certi che il reale sia quello che state vivendo voi ora, adesso?”.
Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri, il nuovo romanzo di Daniele Germani pubblicato da Spartaco edizioni nel 2019, affronta il tema della legge Basaglia. Ambientato a ridosso degli anni Ottanta, negli anni in cui la legge Basaglia chiude i manicomi (1978), il romanzo intreccia le storie di alcuni personaggi, l’uomo, la donna, il pazzo, il vecchio, il professore, in una composizione ritmica originale e lirica nella descrizione di paesaggi e stati d’animo. Il finale è sorprendente e la tematica psichiatrica è trattata con competenza e senza mai cadere nella retorica.
«Soprattutto aveva una domanda ben chiara: come eliminare la polvere e altri brutti pensieri?» La domanda. La domanda è sempre domanda d’amore e di riconoscimento dell’altro, un demandare, e quel rumore bianco interiore che ci guasta la vita è sempre un mancato riconoscimento altrui, dalla famiglia fino al contorno sociale. Il suo romanzo insiste molto sulla capacità del desiderio di donare la risposta risolutiva, che spesso, come lei denuncia benissimo, è delegata all’unica soluzione sbrigativa, «quella chimica che mi tiene assoggettato alla realtà che mi avete costruito intorno», che annienta il desiderio.Perché ha desiderato scrivere questo romanzo?
Perché ho desiderato scrivere questo romanzo? Questa è la domanda regina, quella a cui nessuno può rispondere in tutta la chiarezza che merita, ma non perché si voglia mentire, bensì perché la verità e la fantasia nelle intenzioni di uno scrittore si confondono sempre, e così si confondono realtà e aspettative. Non posso dare una risposta precisa, ma credo che si inizi a scrivere perché si vuole comunicare qualcosa. Tutti vogliamo comunicare con gli altri e tutti lo facciamo nel miglior modo che riteniamo possibile e accessibile, soprattutto. Gli artisti lo possono fare con l’arte, appunto. Chi sa suonare lo fa con la musica, chi sa dipingere con il disegno e così via. Io so scrivere, almeno a quanto mi hanno detto in molti, e allora uso questo strumento per poter esprimere ciò che sento.
Ma io non voglio spiegare la vita a nessuno, con i miei testi non pretendo di modificare le convinzioni di nessuno. Questo romanzo è stato scritto perché mi piaceva il titolo. Sono partito dal titolo e da lì ci ho costruito sopra la storia per intero. Sembra strano a dirsi, ma è accaduto lo stesso anche con il primo romanzo, Manuale di fisica e buone maniere. Il titolo deve essere la luce che illumina la trama e che devo cercare di scovare tra quelle sette o otto parole che lo compongono.
Ovviamente avevo in testa una certa idea e il titolo stesso è nato dal messaggio che avevo in mente di voler mandare, ovvero parlare degli emarginati, di chi è e sarà sempre ultimo. Nel mio primo, il Manuale, parlo di penultimi, ora mi sembrava giusto parlare di chi non avrà mai la possibilità di guardare alla vita con speranza.
La questione Basaglia poi mi ha sempre interessato Già prima di pensare alla stesura, mi ero molto informato su questo momento storico così importante. Insomma, sono arrivato già preparato al momento in cui mi è venuto in mente quel titolo così particolare e poi ho dovuto soltanto metterci dentro la storia.
«L’odore di gelsomino è forte, prepotente, sembra occupare spazio e quasi come fumo denso invade aria e narici ed entra nei pensieri, li addolcisce, rendendo tutto più morbido, rilassante». Molto interessante è la reiterazione di questo giro di frase: ogni volta e in un senso particolare, ogni personaggio s’imbatte nella simbologia di questo fiore. Il gelsomino, e tutte le leggende di cui è protagonista, può esprimere innocenza, felicità, timidezza ma anche grazia e desiderio. Nel romanzo è un chiave che collega i personaggi, una funzione retorica: personaggi, si scoprirà, molto particolari. Come ha lavorato per renderli credibili e diversificati tra loro?
Il lavoro di diversificazione dei personaggi, almeno nel mio caso, avviene in maniera abbastanza naturale. Mi spiego meglio: quando si scrive ci sono varie tipologie di procedura. A volte è necessario definire i personaggi al meglio e nei dettagli fin dove è possibile, perché magari la trama è flessibile e i protagonisti sono il vero elemento portante della storia. Nel caso invece di Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri, la trama è stata pensata per tentare di veicolare un messaggio ben preciso che volevo comunicare e quindi aveva dei paletti decisamente fermi dai quali non potevo in alcun caso allontanarmi troppo.
Anche i personaggi erano definiti, ma non così tanto e ho potuto quindi giocare un po’ con le loro vite, le loro caratterizzazioni, con le varie storie verticali che ho reso funzionali alla trama stessa e non il contrario. È stato bello vivere con loro. Li ritengo tutti molto interessanti. Il personaggio al quale sono più legato è il medico che si incontra in pronto soccorso. Credo sia l’emblema del romanzo stesso. Un uomo intrappolato dai suoi errori in una stanza e dalle sue errate convinzioni di un mondo che ce l’ha con lui, mentre è esattamente vero il contrario. Purtroppo appare per poche pagine, ma prolungare la sua esistenza non sarebbe stato funzionale alla trama.
«Era un concerto di Georges Cziffra, che eseguiva quella che universalmente era riconosciuta come una delle composizioni più complesse mai scritte per pianoforte, la Toccata Opera 7 di Robert Schumann». Ho pensato di rileggere questo passaggio ascoltando Schumann. Il suo romanzo è costruito alternando le vicende di tre personaggi, l’uomo, la donna, il pazzo, e poi ci sono anche il vecchio e il professore. La musica non è solo presente materialmente, sotto forma di pianoforti o di citazioni musicali, ma anche nella metafora che associa il disagio mentale a una nota stonata. Poi dalla lettura dell’indice si evince una sorta di polifonia che alterna voci differenti in una sorta di fuga. Che rapporto esiste, secondo lei, tra la musica e la sua prosa?
Quella sulla musica è questione alla quale tengo molto. Durante la fase creativa e di composizione del testo, ascolto sempre musica, in particolare suonate di pianoforte. Non riesco a scrivere neanche una parola senza che un pianoforte che mi accompagni. Preferisco in assoluto Einaudi, ma anche altri autori come Satie, Bach, Beethoven etc.
Questo ascolto ininterrotto e senza soluzione di continuità per ore anche della stessa playlist mi porta a “inquinare” la scrittura con le note, le partiture e tutto quello che concerne il pianoforte. Anche nel mio primo romanzo il testo era profondamente influenzato dalla presenza della musica di Einaudi.
Questo sconfinamento ha delle ripercussioni ovvie sulla trama e sui protagonisti. Se non avessi questa necessità, probabilmente lei non si sarebbe mai avvicinata a quel negozio di musica e lui non avrebbe avuto la sua nota stonata. Insomma, è un dare-avere a tutti gli effetti, spero con effetti piacevoli per chi legge.
«Basaglia ancora non aveva scoperchiato alcun vaso, il tavolo dove tutto era fermo da più di quarant’anni non era ancora stato rovesciato ed ebbe modo di assistere a quello che accadeva lì dentro». La sua scrittura è a tratti onirica, è un linguaggio parlato dal sintomo, dall’inconscio forcluso, ma anche storia di sofferenze e di umanità derelitta, accenti lirici, a volte, paesaggi che dicono la sofferenza. Eppure v’è il discorso preciso sulla legge Basaglia, e sulle meccaniche psichiche e farmacologiche sottese alla cura. Come nasce un romanzo quando deve rispettare la legge della scientificità, della storia e allo stesso tempo della finzione narrativa?
Questa è una domanda eccellente alla quale non credo possa esistere una risposta comune a tutti gli scrittori. Dico questo perché chi scrive di solito non ha alcuna competenza scientifica riguardo l’argomento che tratterà e per questo si affida a esperti del settore che, in prima stesura, controllano la validità e la bontà dello scritto. O è quello che dovrebbe accadere; almeno è questa la mia linea di condotta. Ho sottoposto il mio testo in fase di stesura a due esperti nel settore della chimica e degli esplosivi e a uno psichiatra che, dopo aver letto e consigliatemi le dovute correzioni, hanno dato il via libera al testo.
Quando si scrive una storia dove si sa già che si andrà a invadere campi dove non si ha esperienza, si deve sempre accettare il rischio che la trama non reggerà, che dovrà essere modificata perché magari i personaggi non possono fare quella cosa che porterà a un successivo step della storia, per questo bisogna studiare molto l’argomento prima di affrontarlo e scriverne.
«Siete sempre più soli e sarete sempre più isolati, dietro alle vostre strane tecnologie, alla musica sparata dentro le orecchie, imprigionata nella vostra disattenta concentrazione». Il romanzo racconta anche una società che da un certo punto in poi si è impantanata nell’individualismo più esasperante, vi si oppone la visione di un suo personaggio: «Chi fa arte la fa per tutti». Alla folle velocità dell’iperproduzione materialistica obietta la lentezza dei processi psichici, ancora di più quando vengono sedati, meccanismi soggettivi che cozzano con i tempi strettissimi della produzione commerciale: dunque velocità contro lentezza. La sua letteratura da che parte sta?
Devo dire che i miei personaggi, sia del primo sia di questo secondo romanzo, vivono in altre epoche, prendono treni e non aerei, anche se potrebbero, non usano i forni a microonde perché ne hanno timore, hanno paura della velocità delle automobili e si perdono in lunghe e lente passeggiate in parchi e periferie labirintiche.
I miei personaggi non sono autobiografici nelle azioni che intraprendono, ma lo sono sicuramente nelle loro sfumature, che cerco di rendere indispensabili all’economia della storia stessa.
L’iperproduzione materialistica c’è sempre stata ed è sempre stata rapportata all’epoca di riferimento, ma quando scrivo amo che i miei personaggi respirino, che si sentano liberi e sganciati dalla commercializzazione di qualsiasi oggetto e prodotto, anche fosse artistico, con il quale si trovano a contatto.
Vorrei precisare che questo processo non avviene a tavolino, o almeno non del tutto. Scrivo di alcune tipologie di persone e mi viene abbastanza naturale la loro caratterizzazione come ho scritto poco fa; la mia letteratura quindi sta dalla parte di chi ha un po’ paura di quello che gli può accadere affrontando la tecnologia dell’epoca in cui vive.
«Ricordatevi però che quel Pazzo aveva ragione: io sono Pazzo solo perché siete voi a voler essere sani». Lei è stato in grado di costruire un intreccio con un finale che sorprende, non solo per una questione di stile che garantisce la tenuta della storia, ma proprio per un aspetto filosofico molto indagato dagli scrittori: la differenza tra vero e falso, tra sogno e reale, e in questo caso tra follia e normalità. La grammatica mentale di uno scrittore ha delle differenze sostanziali rispetto a quella di chi non ama né leggere né scrivere?
Io non credo. Cerco di spiegarmi meglio. La grammatica mentale è un aspetto della fantasia che ognuno di noi, chi più e chi meno, possiede. Leggere e scrivere può accentuare o meno e allenare o atrofizzare la capacità di scrivere, ma è una capacità che si ha innata. C’è chi è portato per fare i conti a memoria, chi ha nella manualità la sua naturale predisposizione e via dicendo. Io non ho la benché minima manualità e se devo fare dei lavori in casa, posso allenarmi quanto voglio, ma cambiare una maniglia alla porta o stuccare un muro crepato per me resterà sempre un impegno quasi insormontabile.
Chi invece ha la capacità innata di scrivere, con la lettura e la scrittura può arrivare a perfezionare quest’aspetto, che dovrà essere però accompagnato dal talento. Uno scrittore scrive perché ha talento che con la fantasia crea un connubio perfetto. Quindi, per concludere, non è importante leggere o scrivere per essere uno scrittore, ma bisogna avere le capacità innate. Poi quali sono queste capacità, beh è difficile da stabilire. Chi ha una mente più analitica magari scriverà un thriller, chi invece è più romantico scriverà un romanzo d’amore.
Il leggere o lo scrivere sono l’acqua con la quale si innaffia il seme del talento. Io non so se questo talento sia grande o meno, solo il tempo lo dirà, ma posso dirti che da quando scrivo leggo molto meno e per due motivi. Ho molto poco tempo, tra il lavoro e la famiglia, avendo anche una bambina piccola, e soprattutto perché ho notato che sono troppo influenzato dagli scrittori che amo e questo aspetto credo limiti molto la naturale evoluzione della mia creatività.
Alcune recensioni sono tecniche, altre svogliate, certe recensioni rivelano troppo della storia e ce ne sono alcune confuse, che forse non parlano neanche del testo in questione.
Quella di Lucrezia di Sotto la copertina è invece un gioiello. Per “Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri” è la seconda recensione di altissimo livello. Lucrezia ha letto in tanti dettagli nascosti la vera natura del testo. Grazie Lucrezia
#JUSTREAD ✍️ – Recensione di “Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri” di Daniele Germani 🙍♂️🙍🤯
Sarà capitato anche a voi: a volte, nelle nostre letture si creano delle consonanze che rendono ogni libro l’anello di una sola catena. Di recente vi ho parlato de La notte dell’uccisione del maiale di Magda Szabó (Edizioni Anfora) come di una detective story in senso lato: indizi disseminati nel corso dell’intreccio che dipingono in triste quadro finale.
In Come eliminare la polvere e altri brutti pensieridi Daniele Germani (Edizioni Spartaco) si verifica qualcosa di simile: storie che corrono su binari paralleli, dirette verso la stessa destinazione senza (apparentemente) incontrarsi mai. Seguiamo le vicende di tre protagonisti accomunati da un senso di sconfitta.
Si rese conto che le restituivano l’immagine che lei aveva di se stessa. Si chiese se anche gli altri si vedessero così deformi, così lontani dall’idea che avevano costruito di se stessi e della loro vita. Forse si contraevano ed espandevano a seconda della grandezza del loro fallimento.
Ringraziamo ancora la casa editrice per averci permesso di leggere questo romanzo!
C’è una donna, ormai non più nella prima giovinezza. A causa di una gravidanza inaspettata e indesiderata e delle pressioni di fidanzato e parenti, ha dovuto abbandonare l’idea di laurearsi e ormai da lungo tempo è imprigionata in una servile esistenza casalinga, circondata da una famiglia ingrata che a malapena fa caso a lei. Tra i suoi amori perduti, quello per la musica del pianoforte: uno dai tanti privilegi che ormai le vengono negati.
C’è un uomo, anche lui sposato, anche lui invischiato in un matrimonio senza amore; un uomo che non ha mai visto il mare, e nella cui testa c’è una nota stonata che lo sta facendo impazzire. Nella sua mente si affollano domande, giuste e sbagliate. Quella fondamentale?
Come faccio a eliminare la polvere e i brutti pensieri?
E poi c’è un pazzo. Che sia un uomo, piuttosto che una donna, non importa: ciò che conta è il male che lo affligge, un male nato e cresciuto in tanti anni di manicomio, di soprusi; fino a che la legge Basaglia del 1978 gli regala una libertà illusoria, che lui sceglie di vivere da prigioniero nello scantinato di un padre che odia e, a sentir lui, da cui è ampiamente ricambiato.
Tre vite che, nel silenzio di una grigia città priva di punti di riferimento, ticchettano silenziosamente come il timer di una bomba: ciascuna di esse, a modo suo, è arrivata al punto di rottura.
Per la donna è la possibilità di lavorare in un negozio di strumenti musicali, di poter di nuovo pigiare i tasti di un meraviglioso pianoforte intonso da polvere e da brutti pensieri; per l’uomo, è quella nota stonata che minaccia di rompere ogni sbarra della sua prigione, di fargli compiere azioni che deraglino dai suoi binari; e il pazzo… Beh, il pazzo è sul punto di compiere l’atto supremo, un atto che avvicina l’uomo a dio.
Personaggi che popolano uno stesso universo. Le stesse strade anonime, lo stesso negozio di strumenti musicali, la stessa scuola, o istituto. Ci sono consonanze, nelle loro esistenze, che ti fanno chiedere se l’uomo e la donna non siano in realtà marito e moglie; se il pazzo sia lo stesso che ha aggredito la consorte dell’uomo senza nome, lasciandole in eredità un perpetuo naso rotto. Eppure c’è una nota stonata, i pezzi del puzzle non combaciano mai abbastanza da formare un’immagine nitida… prima che essa ti esploda in faccia in un modo in cui non ti aspetti.
Non vi svelo altro della trama: vorrebbe dire andare contro le intenzioni dell’autore, contro il gusto investigativo del libro stesso. Un’indagine che non è confinata al lettore: i personaggi, l’uomo e la donna, si fanno domande (quelle capaci di distruggere muri e confini della loro psiche). A possedere le risposte sembra essere il pazzo.
Figura emarginata dalla società, se prima era separato da essa da alte mura di cemento e un oscuro oblio, una volta fuori rimane circondato da un invalicabile fortezza di imbarazzo e paura. La pazzia ieri si scontra con la pazzia oggi: quanto è cambiato e quanto è rimasto invariato nel corso degli anni, dopo una cesura così importante, almeno sulla carta, come la legge Basaglia?
Legare i pazienti come lui gli aveva sempre fatto risparmiare parecchio tempo. Ora la legge lo impediva. A dire il vero lo aveva sempre vietato, ma negli ultimi anni alcune leggi garantivano ai pazzi o ai fuori di testa, alcolizzati e drogati che fossero, lo stesso trattamento sanitario riservato agli altri, e lui si era dovuto adeguare. […] Fece rapidamente il contro di quante persone aveva spedito in manicomio nei suoi trent’anni di carriera solo perché avevano mostrato gli stessi sintomi di questo tizio. Ora non poteva più. Ora doveva curarle.
Scese per un sottopasso. Imboccò quel corridoio lungo e buio dove, nascoste alla vista degli abitanti della città, vivevano le creature scartate dal mondo civile. Senzatetto, qualche matto, eroinomani e spacciatori se ne stavano rintanati il più possibile e da sopra nessuno li avrebbe costretti a trasformarsi in cittadini. L’accordo sembrava funzionare.
I matti restano matti, anche fuori dai manicomi: per molti, la chiusura delle istituzioni ha significato semplicemente passare da uno stato di abbandono e abuso (raccontato nei suoi dettagli più crudi) a un altro.
All’improvviso eravamo liberi. Già. Ma liberi da cosa? Noi avevamo solo bisogno di non dormire nella nostra merda, di avere qualche medicina agli orari giusti, di non venire picchiati per qualsiasi cosa. Non avevamo bisogno di essere liberi. Avevamo bisogno di essere curati. Loro dicono liberi, ma io dico abbandonati. Chi è stato fortunato come me è tornato a casa, perché io una casa ce l’ho. Altri sono rimasti in strada. Alcuni non avevano nessuno, altri ce l’avevano ma non sarebbero andati a prenderli.
Soprattutto, esiste un caleidoscopio della pazzia: ce n’è indotta da soprusi e libertà negate. E una percepita dagli occhi degli altri.
Forse questo non vi è chiaro, i matti sono matti quando sono fuori, quando sono in giro, quando sono a contatto con voi che siete normali.
Se questo libro parla di pazzia e di cura (nelle sue sfumature più oscure: per esempio cura cercata per liberare la società da un peso inutile o sfruttata come mezzo per guadagnarsi gratitudine, notorietà e prestigio) parla anche di noi, dei cosiddetti “normali”.
Lo psichiatra, neurologo e docente Franco Basaglia, promotore della riforma psichiatrica nel nostro Paese e ispiratore della Legge 180 del 1978, che decretò la chiusura dei manicomi.
I normali non sono altro che coloro che non escono dalla linea tratteggiata dal buonsenso comune. Eppure, in un modo o nell’altro, più o meno apertamente, non finiamo tutti per debordare da quei contorni, anche solamente nella solitudine del nostro animo?
Fuori la gente sana pensava che in fin dei conti ce l’eravamo cercata a non nascere uguali a loro.
E quando accade, quante volte anche solo l’istinto di rompere regole spesso automposte diventa un segreto che ci pulsa dentro finché non esplode o soffoca lì dove è nato?
Era arrivato il momento di cercare un pazzo che un tempo aveva preso a pugni sua moglie e capire se anche lui avesse sentito quelle note tutte stonate prima di iniziare a malmenare la gente per strada. Doveva capire se anche lui si sarebbe presto trasformato in qualcosa che fino a qualche tempo prima era semplicemente della polvere da mettere sotto un tappeto della società moderna, da rinchiudere in un manicomio, anche ora che i manicomi non esistevano più. Era ora di andarsi a guardare allo specchio.
La pazzia è allora quell’universo che sta al dilà dello specchio in cui il normale si riflette ma non osa guardarsi. Ed il timore del diverso è uno dei temi portanti della narrazione. La paura che si prova per chi ostenta, volente o nolente, la propria alterità non è altro che l’estrema conseguenza delle barriere che ci separano dagli altri, più o meno sconosciuti. Non è vero che ci trascuriamo a vicenda solo perché il tempo scorre veloce e ne abbiamo poco da dedicare a chi ci sta attorno; a volte, ignorare è una scelta.
Camminando rapidamente per quel corridoio buio, abbassò lo sguardo e cercò di concentrarsi soltanto sulla luce in fondo, stando attenta a non calpestare siringhe e marciume. Soprattutto stette attenta a non incrociare lo sguardo di nessuno.
Il dolore altrui fa paura; e fa paura il pensiero di essere osservati, di essere sorpresi a mostrare un’emozione, salvo scoprire che non c’è nessuno a guardare perché nessuno vuole vedere. E questo è accaduto tanto ai margini della società, nei manicomi come nei campi di concentramento (il parallelismo è evidente), quanto per strada o al supermercato, o persino tra le mura domestiche.
Ti viene da piangere , è un attimo, ma ti rifiuti, perché non puoi farlo in mezzo alla gente, non puoi piangere mentre hai il mondo intorno che ti guarda, anche se poi in verità non ti guarda nessuno.
Non c’è vicinanza, tra i personaggi di Germani. Le famiglie sembrano conglomerati finiti insieme per caso, nuclei funamboli su reti sfilacciate di convenzioni sociali e mancanza di alternative. Le famiglie sono anche quelle che ti spediscono in manicomio per non dividersi un’eredità. I padri picchiano i figli, i figli non rispettano i genitori che invece li amano.
I sentimenti invecchiano e muoiono rapidamente, e restano le conseguenze, sentenze da scontare col sorriso sulle labbra. Non ci si comprende, perché si pensa di farlo già; e si pensa di farlo già perché ci si rifiuta di guardare davvero. E si parla sottovoce, come in manicomio, perché esprimersi è un crimine che si paga caro. Con l’incomprensione e la solitudine e, in casi estremi, con la violenza e l’abuso, in ognuna delle loro molteplici forme.
Pensi di aver contato per qualcuno, per uno spruzzo di vita in una notte di speranze, quando credevi ancora alla nobiltà del gesto, quando credevi che il futuro fosse un evento prevedibile da poter modellare a tuo piacimento.
C’è una quarta presenza che permea tutto il libro, in una forma o in un’altra, in ogni capitolo. Una presenza che si adagia addosso e si attacca, si respira e si beve, si posa a terra o danza nell’aria: la polvere. Una creatura che ha quasi vita propria, una persecutrice. Che cosa sia questa polvere è la domanda fondamentale a cui si cerca di dare una risposta. Ed è possibile eliminarla?
Non vi dirò che cos’è la polvere, dovrete scoprirlo leggendo. Se vorrete farlo. Anche perché solo leggendo, potrete capirlo. Ma posso darvi uno spiraglio su quell’ultima questione, che è anche la prima: è possibile eliminarla?
Non dalla vita di tutti i giorni, o così pare. Solo il pianoforte, nel libro, è intonso, tanto che ci si può specchiare sulla superficie nera. Infinito come il cullare delle onde, o il momento di un’esplosione.
E se non si può eliminare, con la polvere ci si adatta a conviverci, ognuno a modo suo. Il sano e il malato, il reale e l’immaginario ci fanno i conti; ci si adatta, in modi più o meno ortodossi, più o meno benaccetti dalla morale comune. In questo senso, obietta il libro, anche la malattia è un meccanismo di adattamento; curare per forza, curare in maniera ortodossa, allora, vuol dire togliere all’individuo la sua unica arma di difesa contro il mondo.
Un’argomentazione controversa, con cui si può essere più o meno d’accordo. E la domanda potrebbe non essere quella giusta: quel “come” potrebbe dover diventare un “se”.
Tiriamo le fila, dunque: che cos’è Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri?
Un libro che parla alle nostre paure e alla nostra vergogna, paura e vergogna che non sono solo emozioni innate ma anche comportamenti acquisiti. Un libro che sfida la percezione comune di buono o cattivo e di giusto o sbagliato, con una prosa che oscilla paurosamente tra l’alto e il basso (a volte troppo), così come sentimenti e fatti descritti. Una miccia per far esplodere delle domande in testa, quelle che spesso non vogliamo farci.
Un libro che va letto con attenzione, per cogliere i dettagli, lì dove si nasconde il diavolo, come si dice. E felicemente consigliato.
Si potrebbe dire che una delle grandi protagoniste del romanzo è la pazzia, ma io ci terrei a dire che forse, lo è anche l’atteggiamento della società nei confronti delle persone ritenute diverse.
Ci sono tre personaggi, l’uomo, la donna e il Pazzo. Non è stato subito chiaro cosa legasse queste persone, ci ho messo un po’ a capirlo perché all’inizio mi sono decisamente concentrata sull’ultimo: il Pazzo. Ad interessarmi soprattutto è tutto il contorno: sono i primi anni Ottanta e la Legge Basaglia è già entrata in vigore: i manicomi vanno chiusi e le persone abbandonate al proprio destino. La vita all’interno dell’istituto, istituto in cui venivano rinchiusi davvero pazienti con malattie mentali serie, e altri solo perché diversi, omosessuali, rinnegati, non è per niente facile. La violenza è all’ordine del giorno. Chi mangia con la camicia di forza addosso, chi viene punito con la testa nel secchio (e da quel secchio non riemergerà mai), chi è costretto a sentire le urla, chi le botte… lo scenario è quello da film dell’orrore. Quando cominciano i lavori nella casa di cura si accende una speranza: i pavimenti finalmente puliti, le pareti ritinteggiate, la luce che irradia i corridoi lucidi e silenziosi. Ma quell’ illusione di umanità si trasforma presto in una condizione di abbandono che ci stringe il cuore:
Forse non ci stavano mandando via, forse avevano capito che avevamo solo bisogno di tranquillità, di serenità, di non prendere bastonate per ogni cosa, di non avere la testa immersa in secchi di acqua gelida e soprattutto di non morire senza motivo. … Non avevamo bisogno di essere liberi. Avevamo bisogno di essere curati. Loro dicono liberi, ma oggi io dico abbandonati.
Chi aveva la fortuna di avere una famiglia alle spalle è tornato a casa, e io non saprei dire se è stato un bene o un male. Chi invece non aveva nessuno… beh, si è ritrovato in mezzo a una strada, abbandonato appunto. Questo non è un romanzo, queste sono scene realmente avvenute e Germani ci restituisce le sensazioni, le paure delle persone che si sono ritrovate a vivere in una condizione simile: prima maltrattate poi dimenticate.
Qui il linguaggio è crudo, le immagini sono forti: siamo nella testa di un pazzo (davvero lo chiamiamo ancora così?) e niente viene filtrato. Ma… quando siamo immersi in questo scenario, tra urla di pazienti, pillole che cadono e vengono inghiottite insieme allo sporco, il tintinnio delle sbarre, i lividi sulla pelle… abbandoniamo tutto e seguiamo i frammenti di vita degli altri due personaggi, così diversi dal Pazzo, così eternamente legati lui.
Sono due personaggi pieni di rimpianti , sono tutti venati di malinconia. Hanno qualcosa da rimpiangere: la donna sogna di tornare a suonare, l’uomo si pente di assomigliare così tanto ai suoi vestiti: grigi e spenti. Ed è così che gradualmente abbandoniamo il clima di terrore della casa di cura e pensiamo irrimediabilmente alle nostre vite, per dirla con l’autore “C’è ancora tanto da scrivere”, anche e soprattutto per noi.
Il Pazzo non vuole dire addio ai propri granelli di polvere, sono l’unica cosa reale della sua vita. Sono i suoi compagni di viaggio, il suo porto sicuro… la sua malattia. Qui reale e immaginario si fondono, si mescolano, si confondono fino a non farci più capire cosa sia reale e cosa no.
Ho scoperto che il tempo si piega nei ricordi e non nelle ferite che la vita ti ha inflitto. Quelle restano, si trasformano, diventano alibi e verità manomesse dalle circostanze. Le mie, di circostanze, erano le più vere bugie che mi fossi mai detto, le menzogne più reali che nessuno mi avrebbe mai e poi mai potuto contestare.
Sono queste le parole di un ragazzo rimasto rinchiuso per vent’anni in un manicomio, mal curato (e forse non curato abbastanza) che rivendica la propria identità, che passa necessariamente da emozioni e sensazioni provate fino ad arrivare a quel rovesciamento della prospettiva che rischia di sconvolgerci perché mina le nostre certezze:
Cos’è il vero? Come fate a essere certi che il reale sia quello che state vivendo? Voi ora, adesso? Chi può assicurarvelo? Come fanno a essere false certe emozioni che ho provato?
Come eliminare la polvere e altri brutti pensieri è…
Un libro ricchissimo. E’ una denuncia, la vita all’interno di alcune di quelle case dell’orrore rispecchia la realtà. Un orrore che si riflette nei comportamenti di una società giudicante e disinteressata nei confronti del diverso. E’ un libro malinconico, perché vorremmo abbracciare questi personaggi schiacciati dal peso dei ricordi e incapaci, all’apparenza, di trovare una nuova via. Ci sono tante cose in questo libro che ci riguardano. Non importa quanto distante sembri da noi la storia, in realtà parla con noi, di noi. E io alla domanda del Pazzo non so rispondere, perché la sua verità dovrebbe valere meno della mia? E se lui avesse vissuto mille vite ricche di emozioni, avrebbe vissuto meglio di chi si è accontentato? Meglio di chi narcotizzato ha percorso lo stesso tracciato ogni giorno della sua esistenza? Ecco… se, se, se e ancora se.
Consigliato per chi ha voglia di una lettura tagliente, sfaccettata, profonda. Mettetevi in gioco perché Come eliminare la polvere e altri pensieri è un viaggio che vale la pena intraprendere, lasciando un po’ di certezze a casa.
Ultimamente sto saturando la mia presenza su Facebook (e tutti i suoi fratelli) di info su come sta andando bene il mio romanzo, di come piaccia a tutti, di quanto sia stato fantastico scriverlo e pubblicarlo.
Però in molti dimenticano che noi scrittori “per passione” scriviamo nei ritagli di tempo, quando possiamo, quando i figli non piangono perchè ti distraggono e fin quando i nostri pazienti compagni di vita (mogli, mariti, genitori o coinquilini) davvero non ce la fanno più a vederci rintanati ore e ore a picchiare sulla tastiera o a passare decine di minuti a guardare nel vuoto immaginando trame, colpi di scena, personaggi e finali originali.
Noi scrittori per passione non portiamo il pane a casa con quello che scriviamo. Al massimo contribuiamo a sdradicare ancora un pezzetto di bosco con la carta che serve per stampare i nostri “capolavori”.
Però scriviamo perchè siamo certi che parlare a qualcuno tramite una storia sia l’unico (o almeno quello che sappiamo far meglio di altri) modo di potersi esprimere.
Io non scrivo perchè ho tanto tempo libero, perchè di tempo libero proprio non ne ho, non scrivo per un senso di rivalsa contro qualcosa o qualcuno, non scrivo neanche per garantire un futuro migliore a chissà chi.Io scrivo solo e soltanto perchè qualcuno mi fermi (su facebook, per strada, in qualche presentazione) e parli con me di quello che ho scritto, che mi dica cosa ne pensa e magari che non è d’accordo con il che, il cosa e il come di quello che ho scritto.
Noi scrittori “senza pane” non scriviamo per noi, scriviamo per voi.
Forse lo fanno anche quelli “con il pane”, non lo so, io non ne conosco, ma noi lo facciamo per farvi provare emozioni, per vedere lo stupore nei vostri visi, leggerlo nei vostri commenti, per capire se quello che abbiamo scritto è stato capito o non siamo stati bravi neanche a comunicare la metà del significato che volevamo dare.
Noi scrittori “senza pane” siamo molto molto stanchi a fine giornata, perchè dopo le sette/otto ore di lavoro, dobbiamo anche metterci lì a promuovere il nostro romanzo, ad organizzare presentazioni, a conoscere gente, ad invitarla agli incontri etc etc.
Non ci obbliga nessuno, è vero, ma facciamo tutto questo solo e perchè vogliamo che voi leggiate quello che abbiamo scritto in un anno, corretto in due e pubblicato in tre.
Grazie di esserci, lettori, altrimenti il nostro scrivere non avrebbe senso.
Però mi farebbe davvero piacere che fosse chiaro che tra una o dieci copie vendute in più, a noi non fa nessuna differenza, neanche un po’.
Cambia tutto invece tra una o dieci copie lette.
Leggete quello che comprate perchè lo abbiamo scritto, non solo tanto per, così potrete non essere d’accordo con quello che c’è in quelle pagine, ma succederà una cosa fantastica: saremo tutti un po’ più liberi.